Nei primi anni 2000 Vincenzo Marconi è stata una presenza fissa alla Prova del cuoco, la trasmissione che ha aperto la strada al genere del cooking show in Italia. Per tante puntate fino al 2010 la figura di Marconi ha contrassegnato con la sua simpatia e le sue pillole di cucina innovativa il periodo d’oro del programma condotto da Antonella Clerici.
In pochi forse si ricordano questo particolare, ma nell’introdurre in trasmissione lo chef lombardo la conduttrice spesso lo presentava come il “cuoco del frullatore”. Perché sì, … in quegli anni proprio chef Marconi fu tra i primi a nobilitare questo piccolo elettrodomestico presentando piatti colorati e guarniti con le salse a specchio, così come fu tra i primi ad introdurre e a presentare in tante dimostrazioni in giro per il Paese le nuove tecniche di quella che un tempo veniva definita “cucina molecolare”, proponendo effetti sorprendenti con l’utilizzo della gomma di xantano e altri addensanti, oppure l’utilizzo del mirin, la bevanda – condimento caratteristica della cucina giapponese e tante altre novità… come, ad esempio, la sferificazione.
Oggi che tutto questo fa parte dello spettacolo quotidianamente offerto in tv da tanti chef stellati che presentano queste pratiche quasi come fossero un marchio di fabbrica, Marconi ha scelto da tempo di percorrere altre strade. In questi anni si è dedicato con passione alla ricerca sulla materia prima dando vita ad un’originale rete di relazioni con produttori del territorio nata dalla convinzione che la bontà di un prodotto nasca prima di tutto dalla passione e dalla competenza delle persone che se ne occupano; con altrettanta passione ha riflettuto sul legame tra cibo e spazio territoriale elaborando il concetto di “chilometro vero” poiché l’autenticità di una materia non è legata alla distanza dal luogo di consumo ma al rispetto di un corretto equilibrio tra processo di produzione, stagionalità e identità culturale e ancora ha riflettuto – chef Marconi – sulla relazione tra il cibo, la terra e lo scorrere delle stagioni dando vita, con la sua cucina “Inclinazione 23.5” a piatti fuori dagli schemi tradizionali ma in perfetta armonia di gusto.
Se guardiamo bene a questi passaggi ci accorgiamo come Marconi abbia attraversato questi anni che lo separano dal debutto televisivo degli esordi costantemente “in fuga”, quasi da battistrada, sperimentando tra i primi quelle idee originali che poi sarebbero diventate vere e proprie mode. Oggi, raggiunta la piena maturità, ciò che interessa maggiormente lo chef del ristorante La Fornace è riflettere sull’essenza della cucina, sulla capacità di replicare tracce di ricordi, di sapori perfetti ereditati dalla sua memoria personale, da un’infanzia trascorsa in cascina al tempo stesso difficile (perché priva di tutte le comodità della vita di oggi) e felice perché vissuta in piena armonia con la natura, seguendo il ritmo delle stagioni.
“Dover fare i nuovi menù – ci racconta Marconi nel presentare la nuova carta primaverile – mi diverte ancora ma mi rendo conto che la cosa più importante più vado avanti e più cerco di trasmettere ai ragazzi l’obiettivo di puntare non solo o non tanto sulla tecnica ma sul come si lavora e come si cucina. E’ questa la cosa che fa la differenza più di tutte in questi nuovi piatti. Qualcosa che potremmo chiamare ‘ricerca dell’attenzione, della cura di un piatto’.”
Quindi saper cucinare non è un fatto di sola tecnica?
“Esatto non è un fatto di tecnica. Posso portare l’esempio di mia madre, che per certi versi vale un po’ per tutta una generazione. Mia madre non aveva molta tecnica in cucina però quando si dedicava a quei quattro o cinque piatti cha sapeva preparare molto bene, quei piatti che per così dire aveva nelle mani come quasi tutte le mamme era in grado di farli sempre allo stesso livello anche in condizioni di estrema complessità. Ricordo per esempio quando dava una mano alla festa del paese e doveva preparare per 300 persone, oppure quando eravamo in vacanza in montagna con la parrocchia e lei cucinava per un mese per un’ottantina di persone. Riusciva a destreggiarsi anche in queste condizioni difficili e contemporaneamente a mantenere una mentalità di cucina domestica. Io non notavo nessuna differenza tra una ricetta preparata in famiglia e lo stesso piatto preparato per tante persone.”
Cosa intende quando parla di cucina domestica?
“La cucina domestica è fatta di tutte quelle cose che i cuochi oggi non sono più capaci di fare. Faccio un esempio per tutti. Pensiamo agli arrosti, quelli veri, quelli che un tempo le nostre madri cuocevano in padella curando il fornello per ore. Oggi la maggior parte dei cuochi mette tutto in forno perché è molto più semplice. Se pensiamo invece alla grande cucina del passato, alla storia delle grandi brigate, questi piatti venivano eseguiti in padella. Certo – mi ripeto – in forno è tutto più facile, fa tutto lui, ma alla fine il risultato non è un arrosto ma un pezzo di carne lessato.
Oggi il mio primo obiettivo è quello di insegnare ai ragazzi a lavorare attraverso la conoscenza di procedimenti che ci derivano da un passato vissuto a contatto con la terra. Uno può cucinare tutti i piatti che vuole usando le tecniche più elaborate e sorprendenti ma in realtà non sono queste tecniche che riescono a legare ad un piatto il ricordo di un’emozione. Quando arrivò dalla Spagna la moda della sferificazione io andavo in giro a fare dimostrazioni per conto di un’azienda che produceva apparecchiatura da cucina. Mi avevano fatto frequentare un corso con il grande Ferran Adrià e poi avevano organizzato vari eventi dimostrativi in giro per l’Italia a cui dovevo partecipare. Queste tecniche possono sembrare complicate ma in realtà una volta che hai appreso i passaggi da compiere tutto diventava estremamente semplice. Alla fine ho finito per regalare a mia figlia (che allora aveva otto anni) le buste rimaste inutilizzate. Le sono bastati un paio di tentativi per riuscire a portare a termine correttamente quella procedura di sferificazione che ancora oggi tanti chef continuano a proporre come novità nei loro piatti.
A farmi cambiare idea sul reale valore di queste pratiche è stata la lezione di Redzepi e del suo Noma con la sua filosofia di una cucina che prende ispirazione non tanto dal contesto culturale e dal territorio ma proprio dal rapporto diretto con la Terra e con quello che produce in modo spontaneo e naturale.
Per esempio con questo menù porto in tavola alcuni piatti realizzati in ceramica del colore della terra proprio per sottolineare questa relazione e continuo a trovare più ispirazione in quello che ha fatto Redzepi piuttosto che negli equilibrismi di decine tanti miei colleghi, anche stellati.
Quello che ho cercato di fare con questo menù è proprio di lavorare sulle cotture per dare valore alla vera abilità che un cuoco deve avere per fare la differenza ovvero il saper padroneggiare il fornello.”
Ma è solo un fatto di pura manualità o c’è anche altro?
“Non è un fatto di abilità tecnica e nemmeno di consapevolezza culturale, l’elemento centrale da cercare e da stimolare anche nei giovani cuochi è la sensibilità verso la materia prima e la capacità individuare il modo migliore di trattarla in cottura. Una sensibilità che viene dal cuore. Chi possiede questa sensibilità è un grande cuoco, tutti gli altri sono cuochi e basta.
E’ una qualità molto rara che possiedono in pochi. Potrei dire che nella mia carriera ho lavorato con almeno due mila ragazzi ma soltanto una decina di loro (e tra questi c’è certamente la mia attuale sous chef Alessia Sisti) mi sono rimasti impressi per la loro abilità. E sono tutti ragazzi che poi sono diventati cuochi e chef importanti con dei loro ristoranti. E’ più intelligente cercare di insegnare con l’amore piuttosto che con la tecnica. Bisogna prendere esempio dalle nostre madri e dalle nostre nonne, perché se cucini con amore è difficile che sbagli. Poi la tecnica si può sempre imparare. Un bravo cuoco si riconosce anche dalla capacità di ripetere un piatto sempre allo stesso livello.
E’ una questione di capacità di organizzazione, di attenzione e amore per quello che si fa. Il lavoro dello chef di per sé è semplice. Tutti i cuochi sono in grado di lavorare in una grande cucina professionale ma saper cucinare una faraona in padella nella cucina di casa con quattro fuochi allora si che bisogna essere bravi. Oggi è sempre più difficile trovare del personale all’altezza che sappia veramente cosa vuol dire cucinare.
Prima di tutto è una questione di attenzioni. Pensiamo alla cucina di casa dove i piatti vengono preparati per persone di famiglia. Con amore. Per questo motivo quando noi passiamo le comande in cucina non ci riferiamo mai al numero del tavolo ma al nome della persona che ha ordinato. Perché un conto è cucinare per un numero e un altro invece se cucini per un cliente con tanto di nome e cognome. Le mamme fregheranno sempre tutti i cuochi del mondo.
Oggi anche le scuole professionali sono quasi tutte deficitarie da questo punto di vista. Molti dei ragazzi che vedo arrivare in cucina da me sono spaesati di fronte ad un compito semplice come per esempio fare bene una besciamella. Sono bravi a creare ricette astruse ma se li metti di fronte al compito di preparare da zero una lasagna fatta bene vanno in crisi.”
‘Tutto è perduto’ allora? Non c’è futuro per i cuochi di domani?
“Per fortuna no. Oggi per esempio noi stiamo lavorando molto con le scuole professionali del nostro territorio, come il CAPAC di Milano, lo IAL di Legnano e ora anche con la Cooperativa Sociale In-Presa di Carate Brianza che cura dei percorsi formativi per le professioni della ristorazione e devo dire che questi ragazzi lavorano davvero molto bene. Sono convinto che in questo caso specifico il loro insegnante, Gilberto Farina, unisce ad una vera passione per l’insegnamento anche le capacità e le conoscenze di uno chef vero che si confronta tutti i giorni con i problemi della gestione di un ristorante importante come La Palta La Piana. Quando guardo i giovani che arrivano qui dalla scuola di In-Presa per i loro stage mi sembra di rivedere i ragazzi che uscivano dalle scuole alberghiere quando ero studente. Sono ragazzi che sanno già fare da mangiare, giovani che a sedici anni sanno già padroneggiare bene il coltello. Fatto molto raro ma fondamentale perché se un giovane cuoco che sa usare il coltello lo puoi mettere a lavorare un po’ in tutti i reparti.
La cucina deve essere sostanza e capacità di evocare. Tutti vogliono fare il piatto ‘figo’ io invece voglio fare piatti che oltre che belli devono essere prima di tutto buoni. La presentazione del piatto è ciò che fa la differenza tra un cuoco e una madre e su questo siamo d’accordo però prima il cuoco deve imparare a cucinare con passione come le mamme. Produrre buon cibo è frutto di un insieme di procedure che richiedono memoria e sapienza. E ecco se sei in grado di mettere insieme queste due cose allora forse puoi diventare un vero cuoco.
Quali sono i piatti più significativi di questo nuovo menù?
Lo SpaghettOro Verrigni alla San Gennaro è una nostra rivisitazione di un piatto classico della cucina napoletana. Un piatto molto semplice dove utilizziamo lo spaghetto trafilato in oro del secolare pastificio di Roseto degli Abruzzi con un condimento di pane grattugiato insaporito con peperoncino e alici salate sott’olio. Si chiama in questo modo perché la tradizione vuole che venisse proposto nelle cucine di casa il 19 settembre, festa del santo patrono ma è un piatto adatto a tutte le stagioni che ha radici molto antiche che precedono l’arrivo del pomodoro nella cucina napoletana. Una ricetta semplice che può diventare un piatto importante soltanto nelle mani di un vero cuoco che ci metta tutto l’amore di chi cucina in casa per la famiglia. Anche il Timballo di Riso alla Norma (primo piatto) eil Merluzzo fresco alla riggitana rappresentano due ricette originali che rivisitano ed evocano la cucina delle nostre case e delle nostre mamme.
La primavera la festeggiamo con il Club Sandwich al salmone e salsa di guacamole. Un’altro piatto decisamente fresco e leggero è il Filetto di salmerino con salvia, melone e punte di asparagi. Questo piatto rappresenta una novità importante perché per la prima volta dopo tanto tempo torniamo a lavorare con il pesce di acqua dolce.ù
Infine voglio ricordare alcuni piatti che sono eccezionali a prescindere dalle qualità della cucina perché valorizzano ingredienti di grande qualità come ad esempio l’antipasto della bassa con diversi salumi di casa spigaroli (il culatello, la coppa e il loro strolghino che chiamano spigarolino). Con questi tre salumi presentati in purezza abbiamo fatto un piatto principesco: noi aggiungiamo solo un po’ di pasta fritta e di marmellata di pomodoro per accompagnare ma il piatto si è fatto da solo. E lo stesso discorso vale per un altro nostro grande classico , il Filetto di manzo alla pietra. Anche qui è la qualità della carne a fare il piatto. Noi ci aggiungiamo solamente l’abilità nella scelta del prodotto migliore e le nostre salse di accompagnamento.
Intervista pubblicata su www.prenotoio.com.